Dallo streetwear alle passerelle: come l’hip hop e la street art sono diventati mainstream

Dalle gang di periferia ai grandi brand del lusso, l’evoluzione di una cultura nata per strada e finita sotto i riflettori di Sanremo e delle fashion week.

15.02.25

Vi racconto in questo articolo come una cultura nata nelle gang della suburbia metropolitana e dell'underground sia arrivata a dominare l’alta moda e “vetrine” un tempo riservate a un pubblico “agèe”, come Sanremo.

All'inizio ci furono Grandmaster Flash, Tupac e la golden age dell'hip-hop, a partire dalla fine degli anni ’80 e i primi ’90, con artisti del calibro di Run-D.M.C. e Beastie Boys, fino al “gangsta rap”, che includeva artisti come Fatboy Slim e Vanilla Ice. Il tutto era strettamente legato alle culture suburbane e alle gang che controllavano i diversi territori di New York, in particolare la East Coast, con il famigerato Bronx, in contrasto con la West Coast, rappresentata da città come Los Angeles e San Francisco. Questi luoghi evocavano immaginari vicini al film cult I guerrieri della notte (The Warriors), diretto nel 1979 da Walter Hill e ispirato all'omonimo romanzo di Sol Yurick.

Il rapper americano 2 Chainz Il rapper americano 2 Chainz

I graffitari e le gang, a suon di rap, controllavano i loro quartieri, con pratiche e dinamiche di strada, l’unico spazio loro concesso, in una condizione di ghettizzazione. Eppure, da questo contesto nacquero, con una fertilità inaudita, la breakdance, lo skate e altre espressioni culturali che avrebbero definito l’universo dell’Hip Hop (HH).

Ovviamente, ogni movimento aveva bisogno di una “divisa”, un segno distintivo immediato. Così, attraverso lo streetwear, si generavano identità e appartenenza a queste culture urbane. Per distinguersi, si sfoggiavano sneakers, felpe con cappuccio, cappellini taggati e abbigliamento arricchito da vistosi accessori iconici: dalle diverse tipologie di “collanazze” agli anelli vistosi, dai tatuaggi ovunque ai denti d’oro.

Con il grande blackout del 1977 a New York, durante il quale vennero rubate strumentazioni più potenti e performanti, l’hip hop subì un'evoluzione decisiva. Le basi musicali migliorarono notevolmente, così come le barre (la metrica in rima, ndr) e soprattutto gli impianti, che iniziarono a diffondere frequenze di bassi sempre più profonde. Questo portò a un’esplosione di concerti, feste e party, accelerando la diffusione del movimento.

L’hip hop divenne un vero e proprio genere, e il rap, pur rimanendo di nicchia, ottenne riconoscimento a livello planetario , con esportazione anche in Europa. In Italia il fenomeno si intrecciò con le posse, proto-rapper con un’impronta fortemente politica e critica nei confronti della società dei consumi. Parallelamente, il writing si contaminò con figure e characters, evolvendosi in quella che oggi chiamiamo street art, con interventi spontanei che segnarono le strade delle principali città, a partire da Milano e Roma, per tutti gli anni ’90. Tuttavia, queste culture rimasero confinate ai centri sociali e a una nicchia di mercato indipendente. Al contrario, i grandi brand di abbigliamento sportivo, come Nike e Adidas, compresero il potenziale economico del movimento tra le giovani generazioni e iniziarono a posizionarsi strategicamente nel settore.

Space Invader Tag, Cam Evans Space Invader Tag, Cam Evans

In Italia, Milano si affermò come guida e avanguardia, mentre città come Bologna e Roma videro lo sviluppo delle culture Hip Hop in quartieri fortemente urbanizzati. I graffiti erano totalmente illegali e il train bombing (ovvero i graffiti sui treni, a rischio denuncia) divenne una delle pratiche più iconiche.

A partire dai primi anni 2000, sia la street art che il rap iniziarono un percorso rapido e inarrestabile di omologazione, perdendo progressivamente la carica rivoluzionaria e spontanea che le aveva caratterizzate agli esordi nelle scene indipendenti.

Le prime etichette discografiche iniziarono a interessarsi alla prima generazione di rapper italiani, tra cui Fabri Fibra, Club Dogo e Colle der Fomento, seguiti poi da Marracash, Salmo, Ghali e altri. Parallelamente, lo streetwear venne adottato in modo massivo anche dai grandi brand del lusso e dell’alta moda.

Dal 2007 in poi, con il boom dei social, la street art si trasformò in una forma d’arte e cultura mainstream, con vantaggi significativi in termini di divulgazione e documentazione, oltre allo sdoganamento da parte delle istituzioni locali. Tuttavia, questa evoluzione portò anche a una perdita di originalità, identità e della carica sovversiva che la caratterizzava. Fu in questo periodo che emersero figure come Banksy, Obey e Space Invader, solo per citarne alcuni, artisti che oggi sono veri e propri brand globali, spesso assimilabili a holding multinazionali.

Shepard Fairey (OBEY), Campo Santa Margherita, Venezia Shepard Fairey (OBEY), Campo Santa Margherita, Venezia

In quegli stessi anni, un ragazzo figlio di immigrati ghanesi, “Gucci Boy” – al secolo Bello Figo Gu – anticipava di alcuni anni la trap, partendo da YouTube e da una piccola console nella sua cameretta a Parma. Il suo nome d’arte includeva il brand italiano Gucci, che tuttavia lo obbligò legalmente a cambiarlo. Ironia della sorte, proprio Gucci divenne in seguito uno dei marchi più indossati dai trapper e dai loro seguaci, come dimostra il successo della star statunitense Gucci Mane.

A partire da Expo 2015, considerato un punto di svolta almeno per l’Italia, il concetto stesso di street art si svuotò del suo significato originario, lasciando spazio alla definizione di urban art. Questo cambiamento rifletteva il crescente impiego dell’arte urbana nello spazio pubblico per operazioni istituzionali e la diffusione di grandi murales pubblicitari.

Da quel momento, tutto si accelerò. Un esempio lampante è Achille Lauro, che dal 4º blocco di Roma – un territorio fertile per rapper e writer come Noyz Narcos, Gemitaiz e Coez – e dalle sue prime autoproduzioni con la crew, approdò a Sanremo come superstar. Il suo stile fu colto e valorizzato dalla maison Gucci, con il contributo del grande creativo Alessandro Michele, che ne intuì la forza estetica e performativa.

Per chi volesse approfondire, la parabola di Lauro De Marinis, in arte Achille Lauro, è raccontata in due momenti distinti: nella fase pre-boom attraverso il libro Sono Amleto (Rizzoli, 2019), che ho curato con una mostra di tavole d’artista all’interno, e nella fase successiva alla consacrazione sanremese, narrata nel documentario Ragazzi Madre – L’Iliade (2023), autoprodotto dallo stesso Lauro.

Keith Haring al lavoro allo Stedelijk Museum di Amsterdam, fotografia di Rob Bogaerts Keith Haring al lavoro allo Stedelijk Museum di Amsterdam, fotografia di Rob Bogaerts

L’annuncio finale della trasformazione definitiva di una cultura nata dal basso e diventata ultrapop lo abbiamo visto proprio nelle settimane passate. Per chi ancora si illude che la street art e il rap esistano nella loro forma originaria, la mutazione si è compiuta sotto i nostri occhi durante la Milano Fashion Week Uomo 2025. L’esempio più lampante? La sfilata Pdf Channel, che ha riscosso un grande successo in termini di pubblico e copertura mediatica, e dove ha partecipato anche il talentuoso Sick Luke con una colonna sonora originale firmata da Tedua, Wilbandana e Shiva – quest’ultimo tra i pionieri della drill, l’ultima declinazione della trap nata nelle periferie urbane. Un evento in cui il gesto del writing è stato portato in passerella in una chiave più estetica che ribelle, lontano dall’energia di collaborazioni storiche come quella tra Keith Haring e il Montreux Jazz Festival del 1983, dove l’artista eseguiva un live painting in sinergia con le band musicali. Un’operazione autentica, la cui eredità è ancora viva nel merchandising in circolazione.

Il passaggio definitivo dall’underground al mainstream – e forse il cambiamento definitivo di un’intera scena – lo abbiamo visto in maniera ancora più evidente durante questa settimana, con il Festival di Sanremo. Un’edizione in cui hanno sfilato gli ex rapper e trapper ormai popstar a tutti gli effetti: Achille Lauro, Shablo e Guè, Tony Effe, Rocco Hunt, Rose Villain, Fedez, Rkomi. Tutti perfettamente confezionati, vestiti di tutto punto e contesi dai brand che li vogliono come ambassador. L’hip hop che fu, oggi è ufficialmente una questione di luxury fashion.

Immagine di copertina: Il cantante italiano Achille Lauro

Christian Gancitano è un agitatore culturale, curatore d’arte indipendente e urban art specialist. Direttore artistico di Spaghetti Boost, si dedica a progetti contro la dispersione scolastica e la povertà educativa, promuovendo la rigenerazione urbana attraverso la street art in quartieri milanesi come NOLO, Via Padova e Lambrate. Con la casa editrice Rizzoli è autore e curatore per nuove edizioni di classici, ma anche di libri contemporanei come Sono io Amleto di Achille Lauro, Le strade parlano – una storia d’Italia scritta sui muri di Marco Imarisio e SWAG: autobiografia e pensieri di Bello Figo. Ha collaborato con alcune delle agenzie di comunicazione più importanti in Italia e scrive per Artuu Magazine e Billboard Italia.

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